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Spettacoli lunedì 07 gennaio 2019 ore 08:24

Favino ripropone il suo monologo al Teatro Era

Pierfrancesco Favino in "La notte poco prima delle foreste" (Foto: Fabio Lovino)

La stagione teatrale riparte con il celebre attore e il suo monologo "La notte poco prima delle foreste" che ha conquistato Sanremo lo scorso anno



PONTEDERA — Dopo la pausa natalizia, la stagione del Teatro Era riprende in grande stile questa sera, lunedì 7 gennaio alle 21, con la presenza dell'attore Pierfrancesco Favino - che soltanto pochi giorni fa era a Peccioli per "Conversazioni a Fonte Mazzola" - diretto da Lorenzo Gioielli in La notte poco prima delle foreste. Il brano che ha conquistato Sanremo lo scorso anno era un estratto del testo di Bernard-Marie Koltès che l'attore romano porta in scena nella sua integrità ed estrema bellezza. 

È lo stesso Favino a spiegarne il fascino profondo: “Mi sono imbattuto in questo testo un giorno lontano, mi sono fermato ad ascoltarlo senza poter andar via e da quel momento vive con me ed io con lui. Mi appartiene, anche se ancora non so bene il perché. È uno straniero che parla in queste pagine. Non sono io, la sua vita non è la mia eppure mi perdo nelle sue parole e mi ci ritrovo come se lo fosse. Il suo racconto mi porta in strade che non ho camminato, in luoghi che non ho visitato. Come un prestigiatore fa comparire storie di donne, di angeli incontrati per caso, di violenze e di paura di ciò che non conosciamo. Forse è anche a questo che serve il Teatro e mi auguro di riuscire a portarvi dove lui porta me”.

Bernard-Marie Koltès, autore francese tra i più importanti del ventesimo secolo, scomparso a soli 40 anni, ha creato con questo testo un poema per voce sola sui problemi dell’identità, della moralità, dell’isolamento, dell’amore non facile. Poco prima del punto di non ritorno della nostra umanità. Essere stranieri. Abbordare un nuovo e giovane amico sotto la pioggia. Avere in cuore una ragazza notturna, un ectoplasma da lungofiume. Odiare gli specchi. Amare le puttane matte. Distinguere il ‘nervosismo’ dei macrò usciti dritti dritti dalle gonne di mamma. Farsi un’idea di qualcuno solo se te lo scopi. E però poi filarsela, senza discorsi. Denunciare la divisione in zone di lavoro settimanale, in zone per le moto, o per rimorchiare, o per le donne, o per gli uomini, o per i froci, e avvilirsi per zone della tristezza, della chiacchiera, dei venerdì sera. L’intelaiatura di quest’opera è un paradigma straordinario, un testo fluentissimo e irto nella sua prosa vertiginosa, aliena da punteggiatura ferma, tutta pervasa di anacoluti e biasimi come un romanzo-pamphlet di Céline. I temi assoluti di questo autore prematuramente scomparso a quarant’anni affiorano in una comunicazione per voce solista, un poema teatralissimo che sconta i problemi dell’identità, della moralità, dell’isolamento, dell’amore non facile.

Lorenzo Gioielli racconta qualcosa di più nelle note di regia: “Nella notte poco prima delle foreste, poco prima del punto di non ritorno della nostra umanità, poco prima della fine del mondo, un uomo, uno straniero, un estraneo, un diverso che ha tentato in tutti i modi di diventare un eguale, ferma nella pioggia un ragazzo. Che sembra un bambino. Immacolato. Qualunque cosa aggiunga e qualunque tentativo di spiegare cosa l’estraneo dice al giovane farebbe un torto a Koltès, a Favino e al pubblico. Le piane e corrette parole che dovrei scrivere servirebbero soltanto a limitare la dolorosa vastità dell’interprete e a minimizzare la sconcertante bellezza del testo”.


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